La solitudine è l’agonia infinita dell’amore, il suo lento e inesorabile sciogliersi nel silenzio degli altri, il suo finire nell’indifferenza e nell’oblio.
La cosa più terribile, la più sconvolgente è quella di assiste- re al consumarsi dell’amore davanti al dolore umano nelle sue espressioni più tetre e inaccettabili.
Infatti la prima e la più dura condanna inflitta ai poveri è la solitudine, il lasciare che il loro dolore bruci ogni resistenza, abbia ragione di ogni loro tentativo di alzare il capo e muovere qualche passo e raccattare qualche refolo di speranza.
Non è certo il vertice della FAO che si è tenuto a Roma ai primi di giugno a darci una fotografia della fame che peraltro ci era già nota. Ma è tale vertice a promuovere sensibilità, a scatenare indignazioni, a disvelare vergogne, soprattutto da- vanti alla latitanza di molti capi di Stato e di governo, assenti da Roma per motivi che nessuno sa, ma che molti intuiscono.
Le cifre della vergogna sono lì ad aggredirci come fionde avvelenate, a turbare (se turbano) le nostre pigrizie, le nostre esangui giornate consumistiche. 815 milioni di persone non dispongono neppure di un dollaro al giorno per alleviare i mor-si della fame. Ogni quattro minuti una persona, specialmente bambini, muore per mancanza di cibo. Tralasciamo di parlare delle condizioni di lavoro, di quelle igieniche, di quelle sanita- rie.
Di fronte ad una catastrofe di tali proporzioni occorrerebbe una cifra di 24 miliardi di dollari ogni anno per dimezzare, entro il 2015, il numero di coloro che soffrono la fame.
Già nel 1996 furono assunti analoghi impegni stabilendo, già allora, la data del 2015 come termine di approdo per il dimezzamento. Invece i risultati sono stati largamente carenti fino ad imbrigliare la tendenza alla diminuzione della fame nel mondo, anzi a lasciare che la geografia della fame includesse altri spazi.
I problemi del terzo mondo restano quindi come una can- crena che disonora e corrode la civiltà del terzo millennio.
Temi come quelli del debito dei paesi poveri, del loro accesso ai mercati mondiali, al credito e alle tecnologie, delle migrazioni dal sud al nord del mondo, sono quelli su cui è chiamata a misurarsi la nostra civiltà occidentale che si fregia indebitamente del segno cristiano.
Sono interpellanze roventi che aggrediscono la coscienza cristiana e quella laica ponendole di fronte a veri e propri crocevia storici.
Ogni indifferenza, ogni distrazione, ogni nostro voltar pagina e parlare d’altro è l’indice dunque di un tradimento che si carica di vergogna di fronte agli uomini e, per noi cristiani, di fronte a Dio. Né sarà l’elemosina di qualche spicciolo a mette-re in pace la coscienza cristiana dell’occidente, né la constatazione della propria estraneità ed impotenza.
C’è qualcosa che va gridato e reclamato con forza sul piano della politica, laddove si assumono le decisioni vitali per il futuro dell’uomo. Perché non è più possibile sonnecchiare indolenti sulle contraddizioni di un capitalismo infame che teorizza le sue libertà di mercato e le sue priorità nell’intervento pubblico, mitizzandole fino al punto di lasciare che i poveri siano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
La carità su scala mondiale assume il nome e la veste della politica. Ora come non mai. Di una politica che reclama una scelta di campo netta e definitiva a favore delle posizioni più deboli, una scelta di campo dettata dalla condivisione e dalla passione per l’uomo, libera da ogni tentazione minimalista come da ogni angusta visione conservatrice da capitalismo d’assalto.
Per questo la credibilità dei potenti e di coloro che hanno accumulato ingenti fortune e che ora recitano improvvisati mea culpa solidaristi, appaiono di dubbia credibilità.
Per questo la latitanza dal forum di Roma dei capi delle nazioni ricche appare come una fuga colpevole e agghiacciante dettata dall’indifferenza o dall’interesse al disimpegno.
Per questo certe leggi, come quella recente sull’immigrazione, appaiono inutilmente punitive e vessatorie verso i poveri che cercano lavoro e affrontano l’espianto doloroso dalle proprie radici per emigrare all’estero.
Una legge che rifiuta ogni sanatoria come ogni ricongiungimento ai propri familiari, finendo per disattendere, nella sua furia xenofoba, perfino le esigenze di un’industria che ha sete di mano d’opera e rischia di chiudere i battenti senza l’apporto degli immigrati.
Anche qui la solitudine dei poveri finisce per diventare scelta vergognosa della politica. Una scelta dettata dalla paura e dall’egoismo, da una sorta di disperato razzismo che la legge, consapevolmente o meno, finisce per alimentare.
Bisogna avere il coraggio di gridare tutta la nostra capacità di rivolta, tutta l’urgenza di una passione dei poveri che sta nel nostro DNA di cristiani, una passione da scoprire come una nostra identità irrinunciabile che reclama una scelta, morale, ma anche politica, perché la politica è il luogo in cui vanno sostenute le ragioni di chi non sa farsi o non può farsi ragione in quanto appartiene alla schiera silente di coloro che non hanno voce.
Emanuele Giudice
“All’indomani della visita di Papa Francesco a Lesbo e del suo nuovo appello contro la povertà e per i diritti dei popoli migranti, pubblichiamo un articolo di Emaneuele Giudice, scritto nel 2005 ed intitolato “LA SOLITUDINE DEI POVERI”