Con questo lavoro Emanuele Giudice conferma un suo peculiare spessore poetico in quanto la sua attività poetica si può contestualizzare nella difficile eredità della lezione umana e poetica montaliana, che in gran parte ha caratterizzato la seconda metà del 900’, oltre che in un processo di riscrittura originale di ascendenza leopardiana e ungarettiana .Ciò può essere verificato dalla rilevazione nei testi poetici di G. della fisicità di immagini e loro tendenza verso una profondità metafisica, della concentrazione lirica e del ritmo a volte narrativo; a questi aspetti si unisce strettamente un plurilinguismo in cui ricerca del sublime e osservazione pure della cronaca umana del mondo fisico sostengono la capacità di unire il canto, l’impegno etico, filosofico, religioso ed un linguaggio tendente al prosastico, in cui registri lessicali alti e bassi rivivono investiti da una densità di pregnanza significativa.Infatti, il lessico tende ad accogliere elementi tipici del parlato comune accanto a parole di nobile tradizione letteraria, la sintassi si sviluppa lungo proposizioni brevi, con netta tendenza alla nominalizzazione, la metrica alterna versi brevi(i versicoli ungarettiani), ad altri più lunghi, propri di un eloquio comune. Soluzione marcatamente poetica risulta il ricorso a insistenti enjambenent che prolungano, nella spezzatura del verso,oltre la sua misura ordinaria, l’irrompere di pensieri sospinto vorticosamente dalla passione e dall’emozione,segno di un costante senso di inquietudine.Coscienza acuta di una crisi sia esistenziale soggettiva sia epocale antropologica. Di questa eredità Giudice raccoglie l’impegno di intellettuale libero e la tenace volontà etica di capire i mali della storia e dell’uomo dagli anni 50’ fino agli anni della crisi delle ideologie e dei fondamenti della civiltà umana stessa in una assoluta e disinteressata dedizione alla ricerca di una “improbabile”funzione salvifica della poesia. In questa opera in particolare si conferma e si esplicita una sostanziale fede nella funzione della poesia come attitudine personale a chiarire e giustificare le ragioni esistenziali interiori che si agitano e si generano tra disinganni dolorosi della mente, percepita sempre nei suoi limiti conoscitivi, e fiducia pervicace nella ricerca di un risarcimento che la parola/poesia può concedere a chi vi si dedica con estrema e pura dedizione. In questa rilevazione tematica con coerenza si snoda questa opera poetica di G., tra osservazione coraggiosa di drammi storici dis-umani contemporanei dell’uomo e incessante cura della parola poetica”quale unguento per sanare i piccoli(grandi)malori del giorno(dedica ad Emi in “Oltre la tela del ragno che m’invento).Ciò giustifica l’ossessiva ricorrenza della figura retorica dell’ossimoro che mira a far esplodere la contraddizione radicale della vita:”nostra gioiosa demenza”,(Fuori dalla trama), “il nostro volatile presente(Oltre i marosi),”In te si è moltiplicato/ il perdono/nella misura senza misura/dell’amore(Maria di Magdala).Esemplare è il verso di Colori”abbacinati da questa dismisura”: in esso si evocano rimandi stilistici e significativi all’Infinito leopardiano e al verso ungarettiano di L’Allegria”M’illumino /d’immenso”:la tecnica dell’opposizione fra il determinativo “questa” e l’indefinito”dismisura” rivelano la negazione del limite come slancio volontaristico da una condizione di finitudine, la prigionia dell’essere:Una sensazione fisica,”abbacinati”,prodotta da una intensità luminosa soverchiante, diviene un sentimento interiore che trascina l’io verso una esperienza sublimante della relazione sensazione/pensiero.
Sin dall’esordio “Solitudine e voli” viene fissato il motivo esistenziale della ispirazione, incentrato sulla parola-chiave “inquietudine”, che,sparso in altri testi , ritorna insistente nel testo finale “Conclusivo inconcluso”per svelare inquietudini, nell’irrequieto calendario:dunque, la inquietudine esistenziale dell’io e della nostra epoca, sul piano sociale, politico, religioso, morale, costituisce il contesto in cui si svolge unitariamente il suo percorso poetico . La coscienza profonda dell’io, il paesaggio naturale, la storia si fondono in un racconto in cui la volontà coraggiosa dell’uomo-poeta sperimenta la sconfitta e al tempo stesso cerca di cogliere difficili ma necessari sussulti salvifici della vita.
Protagonista assoluta è la parola nella sua ambivalenza di strumento potente della tradizione ed, ora, strumento fragile di un essere bloccato alla balbuzie, incapace di “saper liberare la parola/bloccata nella gola”(Muti al crocevia).Al centro di questa constatazione i protagonisti io-noi, legati entrambi alla illusione vana della vita,”come l’unico nido che ci scalda” e ci spinge ad immaginare la percezione di “voci umane /come musiche suonanti solo per noi”, a fronte invece della tragica coscienza secondo la quale “nasciamo/per cominciare subito a morire”(Musiche per noi). Il destino del noi si configura in un comportamento insensato”come moscerini/in cerca della loro piccola morte”attorno alla candela:il noi non può sottrarsi al suo destino, che gioca cinicamente con l’istinto della vita.
La scrittura si fa così testimonianza del destino esistenziale dell’uomo,analizzato decisamente e con compassione tra le sue fragilità, le false persuasioni e improbabili aspirazioni a momenti salvifici. Di fronte, la coscienza del poeta, di chi appartiene stoicamente alla razza del ”noi siamo fermi alla terra..”, di chi si assume la responsabilità di osservare senza veli, denunciare, disilludere, di chi si sobbarca all’etica del dovere e del sacrificio.Ineludibilel’eco delle parole di Montale in Falsetto:”Ti guardiamo noi, della razza/ di chi rimane a terra”.
Lo spazio di intervento non è solo l’interiorità dell’io, ma pure l’ampio scenario della storia, della vita sociale e religiosa.Senza dubbio l’acme della rappresentazione del destino tragico dell’uomo è metaforizzato nella surrealistica comparazione vita/scacchiera, in cui l’uomo resta trastullo incosciente “in attesa di una mente /che recuperi il gioco/sistemando i pezzi/a uno a uno/per ricominciare lo stupido diletto”:come nella Palinodia al Marchese Gino Capponi di Leopardi, la Natura/Vita è il capriccio di un fanciullo che costruisce e distrugge edifici per gioco senza scopo, a suo libero arbitrio:”La natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio adempie, e senza posa/distruggendo e formando si trastulla”.
L’itinerario della ricerca si rivela in un approccio coraggiosamente solitario verso l’enigma, pur se il fine resta la ricostituzione confortante della “social catena” o di una relazionalità ampia e tenace con i compagni di strada(Gli altri):”i fantasmi che mi attorniano la notte/e di giorno mi aggrediscono/coi loro affilati silenzi”).La scelta di un procedere anche fra circostanze quotidiane o eventi ordinari della cronaca fonda quella volontà dialettica di farsi interprete di una condizione collettiva sospesa tra inesorabile desertificazione dei rapporti umani(“rimane solo uno stanco mugugno,/e uno sgomento /davanti al tempo disinvolto che ci svuota”(Allo specchio),sentimento di angosciante derelizione eppur bisogno insopprimibile di un segno salvifico(“aspettiamo miracoli di balsami e carezze(Ferite). Per queste intime ragioni lo sguardo di G. non rifugge dai molteplici e complessi aspetti della realtà storica ed esistenziale dell’uomo:così, il sentimento poetico oscilla tra lirismo profondamente soggettivo e realismo contraddittorio in cui i dati dolorosi della quotidianità si saldano con il bisogno di un ansioso conforto religioso. Sicché, il sentimento organico e contraddittorio della vita risulta la forza che vivifica e sostanzia l’immaginazione metaforica, le parole semanticamente dense e pregnanti di tensione etica, per nulla semplice e ricco orpello retorico.
Il titolo ossimorico vale ad introdurci nel complesso mondo poetico del Nostro, sospeso tra un bisogno acuto di certezze, come l’immagine archetipica del sole sembrerebbe garantire in quanto fonte di fecondità e vita, e la notazione antitetica dell’aggettivo “provvisorio” che sospende indefinitamente la pur precaria e giornaliera esperienza confortante della epifania della luce. Le stesse immagini illustrative del quadro di Van Gogh ,la notte stellata,ci proiettano in questa condizione angosciante di una luce sopraffatta dalle ombre pervasive della notte e della perdita:emerge prepotentemente l’impressione della inquietante consapevolezza di una solitudine desolata e di un animo smarrito e allucinato di fronte al mistero dell’universo e alla drammatica vitalità del pittore/poeta, consapevole di un sentimento di fragilità e inconsistenza dell’individuo e al tempo stesso della sublime e soverchiante immensità del cosmo.
L’esordio stesso “Solitudini e voli” inquadra la stringente condizione esistenziale di smarrimento, di afasia e di incapacità di agire”e restiamo soli ai quadrivi/ davanti a plurime opzioni..c’è solo la risorsa di un volo/a governare le nostre inquietudini”. L’eco dell’utopia leopardiana del pastore errante”s’avess’io l’ali” riproduce l’infelice e oggettiva consapevolezza che la salvezza dall’inquietudine è impossibile o miracolosa qualora si potesse avverare il sogno umano di sollevarsi in fuga dal caos storico.
La dimensione di uomo solo, irrelato o ectoplasma, di memoria montaliana, si definisce in “Ora e dopo” con parole tra un rigoroso giudizio razionale dei limiti invalicabili dell’uomo e una pacata ma decisa rappresentazione sarcastica del velleitarismo dell’uomo “che se ne va sicuro”: è la riappropriazione esistenziale e poi riscrittura del modello etico dell’io montaliano nei versi di “Forse un mattino”: ”ed io me ne andrò zitto/tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”.”Il futuro è un gioco di scommesse/beffardo ambiguo/sfugge e ricompare scompaginando la nostra prestanza di cicale/impegnate in canti senza epilogo” Così, per G., resta solo “l’affanno del cercare tra parole stremate, pensieri ostinati che assediano la mente mentre il tempo ci ruba la vita, un roco esaurirsi dei vocabolari, aborti di idee che aspiravano alla luce; talora appare un frantume invisibile e perso trafugato al buio, il desiderio di ritrovare àncore e profezie che leniscano piaghe, l’urlo dell’essere , la volontà di ascoltare la vita nel sogno caparbio/di darsi una ragione(Oceani e deserti).Tale sentimento, tuttavia, si alterna con la soggettiva e coraggiosa autocoscienza di fragilità dell’essere:”mi scopro una solitaria maceria/reduce dai mille brindisi/offerti all’inganno di delizie. In antitesi si stagliano i guardiani del qui e
dell’ora che osano l’impervio, indifferenti ai precipizi di presuntuose intelligenze. Siamo pronti a giocare partite oblique e perse in partenza(Camelie).
Di questa lucida disamina della vana superbia dell’uomo contemporaneo e della sua reale fragilità si nutre il sentimento poetico di G. che, perciò,trova per sé, cioè per il destino del proprio io, la famelica ansia del cercare, il desiderio di “improvvisi chiarori in fondo al tunnel/dove la luce effonde /i suoi pavidi ardori iridescenti(Chiarori).Da queste premesse consegue una peculiare identità della poesia di G. che mira ad esplicare tendenze metafisiche nella condizione sospesa dell’io tra bisogno di conoscere, capire e percepire la tragicità della propria inadeguatezza. Perciò, è oltremodo riconoscibile una impronta metafisica nella gestione della parola,pur costantemente sorretta da una singolare mescolanza di passione e pensiero, di sentimento e raziocinio, con i quali in strutture sintattiche semplici e incalzanti, in stilemi frequentemente nominali con accumuli di parole che sembrano inseguire ossessivamente l’idea che la passione ispira e alimenta,sono espresse emozioni profonde e segrete che esplodono sulla pagina bianca. La stessa presenza inconfondibile di un linguaggio figurato nel suo uso metaforico aspira a diventare medium o segno ermeneutico, laico e originalmente religioso al tempo stesso, degli interrogativi e dubbi sul mondo, sulla storia e sul loro significato. La realtà è oggetto di osservazione lucida e continua, della quale si cerca di recuperare una autentica dimensione referenziale, pur caricata di interrogativi che rimandano ad una tensione di epifania di un suo intimo o ultimo segreto.
La poesia di Giudice appare il continuo ascolto di un io lirico che scava nella sua interiorità l’ansia incessante della ricerca della verità. La dinamica si compone nella relazione tra io,enigmatico essere, e parola, solo strumento di lacerazione del velo oscuro dell’io stesso. Scrivere, scrivere..martellare con rabbia la tastiera/per resurrezioni ingorde di vita:ma la parola è drammaticamente debole, impotente provvisoria, pur portatrice di sperati significati che mai si manifestano;a questa parola, tuttavia, il poeta resta avvinghiato, nel silenzio e in un’ansia di delusione sempre incombente: in questa condizione esistenziale e oggettiva percepisce il senso della vita, tra silenzio e dolore dei propri limiti esistenziali:”Non c’è dolore più grande/di quello partorito dal silenzio”(Impervi dolori). In questo sempre presente rischio di nichilismo si genera pure la scintilla di un senso, per miracolo, tra incredulità ed effetto, come i tre versi trisillabici registrano velocemente in una scansione sacra rigorosamente ternaria:”Il nulla/nel nulla/s’appaga. Rinasce. Si scopre scintilla”(Il Nulla); anche certe immagini di squarci lirico-descrittivi come in “Taormina”, in cui il realismo descrittivo è filtrato da una contemplazione dell’animo che carica di intensità quasi religiosa e mistica l’immagine fisica del paesaggio che sembra elevare il lettore ad una tensione verso l’infinito.
La pluralità dei temi, apparentemente slegati e caotici, risponde alla consapevolezza di una realtà frammentata della quale indagare i significati più profondi, misteriosi e portatori di improbabili messaggi salvifici. In effetti,la propria solitudine esistenziale, simbolo di una solitudine antropologica, ricerca nel magma della storia eventi positivi(Don Pino, Ode a Gesù, Pensieri di Natale,Maria di Magdala) in cui non esistono diaframmi ideologici o scelte escludenti. “Nella terra dei padrini arringavi i figli: la semplice figura sacerdotale di don Pino si staglia eroica di fronte ai padrini e “proprio nell’ora dei lupi fu per sempre libera dalla prigione dei giorni la tua gloria”: non ascetismo né fede dogmatica, ma esempio caparbio ed ostinato di impegno sociale attraverso la parola–preghiera e l’azione definiscono il senso profondamente umano della Chiesa tra gli uomini. Chi non ricorda “la chiesa che prega, combatte e soffre “ della Pentecoste di Manzoni? Da questa ansia è nutrita la forte tempra religiosa che definire laica è giudizio improprio ed inadeguato. Infatti, la religiosità si sperimenta come una attitudine costante dell’uomo a porsi di fronte ai mali del mondo e ad intravvedere con tenacia possibili quanto incerte e provvisorie soluzioni. L’esperienza di Maria di Magdala connota un sentimento religioso inattuale, vissuto come slancio irripetibile che trasforma in esperienza assoluta amori contingenti e frustranti, oltre ogni calcolo, logica e pregiudizio, sublimando l’essere umano nella congiunzione assoluta insperata con il figlio di Dio.
Questo sguardo religioso teso a scandagliare gli eventi in tutte le direzioni permea ed intride un afflato religioso coerente nel quale l’ordine sociale ed umano è il luogo prediletto ove sperare di rintracciare i segni della presenza di un Dio. Questo Dio, in Ode a Gesù, si coglie nello sforzo razionale e volontario di trovare, attraverso la parola o una definizione possibile, il segno agognato nell’io soggettivo più profondo o nelle pieghe della realtà materiale e amorfa: le parole si inseguono come per furore cognitivo nell’ansia tesa a pervenire non ad un concetto dogmatico e falsamente rassicurante, ma ad una percezione dell’essere divino,pur se parziale e minimale, ma tutta umana, conquistata con la tenacia della ragione. Ne emerge un
sentimento cristiano aurorale e genuino che si scopre nell’abisso solitario del proprio essere dove l’io e Dio si confrontano in un’ansia attrattiva frenetica.
I componimenti si snodano ora ispirati da intuizioni umili che colgono e comunicano con metafore di insondabile semplicità un sentimento del vivere quotidiano traboccante di partecipe affetto empatico:”qui al sud i nostri inverni sono docili come bambini e tiepidi come labbra di vecchi innamorati al fiorire di amori improvvisi”, ora da irrefrenabile sdegno per la contraddizione paradossale della vita di un grande paese come l’America: in nome della libertà la libera vendita delle armi causa irrazionali e folli tragedie di vittime innocenti: ”erano bambini col grembiule e il fiocco azzurro..che giocavano alla vita e cantavano ignari”: eppure, la risentita coscienza civica del Nostro frustra senza pietà l’ipocrisia di un patriottismo e di una religione blasfemi “i mercanti di armi sono un esercito di patrioti che pregano e sperano in nome di Dio affinché si torni a dire ancora e per sempre viva l’America”; da un rigoroso senso civico nella riscoperta entusiasta dei 70 anni di pace dell’Europa contro la terribile esperienza del Lager “ e pareva finita per sempre /in questo deserto di colori/ anche la grande Europa/incagliata a precipizi”; dall’amara esperienza della infelice degenerazione della nobile arte della politica ,svuotata della sofferente sostanza umana, come gli aveva insegnato l’indimenticabile figura di Giorgio La Pira, e ridotta a “maschere patetiche/ di buffoni e giocolieri che vendono droghe di parole ai quadrivi e dagli schermi erompono in finzione/ e ciarle babeliche”: rappresentazione sarcastica ed impietosa della pantomima della vita pubblica che affoga impietosamente tra” slogans e cabale di maghi senza patente”(Il circo); dalla ironica ed affettuosa constatazione, di ascendenza leopardiana(Dialogo di un passeggere e di un venditore di almanacchi) di un rituale sociale e collettivo, effimero e pur ossessivamente ripetitivo, che celebra follemente l’eterna insoddisfazione del tempo passato e l’illusione sempre rinascente, puerile e caotica, di un’attesa di felicità improbabile: “della nostra volatile illusione/di imbrigliare il tempo/in vacue bollicine di spumante:/E senza perché ripudiamo il vecchio anno/incolpandolo di sconosciuti misfatti/mentre al nuovo consegnano/la pallida speranza/che svanisce tra le mani”.
La dimensione letteraria di questo intenso diagramma tematico è rilevata dalla dichiarazione esplicita del suo rapporto con la parola:” vorrei scrivere parole oltre le semantiche vigenti, oltre i languori dei ritorni”. L’esperienza della parola si gioca,
perciò, nella coscienza che la poesia “ non è un segno inciso sulla carta né un blasone di bacate vanità, ma un suono scandito nel cuore che subito si fa musica e narrando la parola ne rivela gli umori e le indigenze : come Ungaretti”quando trovo una parola/in questo mio silenzio/ scavata è nella mia vita/come un abisso(Commiato-Allegria).Letterariamente la parola aspira a recuperare purezza e densità semantica sempre nuova perché partorita dalla auscultazione del proprio io.Così, l’imprevedibilità della vita si travasa nel bisogno espressivo linguistico che nella ricca esperienza del verso libero conferma il legame indissolubile tra parola e vissuto.
Il molteplice susseguirsi di temi e riflessioni, perciò, si configura secondo una rigorosa coerenza di ricerca esistenziale. La coscienza del provvisorio come categoria propria dell’io e dell’uomo, stimolo a rilanciare slanci di ansie di verità, viene sancita dall’ossimoro” Conclusivo inconcluso”, che testimonia il destino aperto del percorso dell’io oscillante tra “smarrimento e speranza nel chiarore intravisto”, perché “tutto si muove e si rinnova/e nulla ..si conclude /nell’irrequieto calendario /che ci sfida”: preziosa testimonianza di impegno e di fiducia nella potenzialità salvifica dell’uomo, connotata dalla emblematica figura di una malinconica palma/ (che)sfida il deserto col suo esile verde(Davanti alla nuda appariscenza): lezione indimenticata dell’umile e odorosa ginestra leopardiana e della solitaria Agave sullo scoglio montaliano.