Ciascuno di noi, chi più chi meno, il più delle volte inconsapevolmente, ha una inclinazione irresistibile a parlare di sé, ad autocitarsi, a infiorare i discorsi con la parola io. Io io io. Quante volte pronunciamo questo pronome per condire il nostro eloquio? Lo facciamo portando come esempio la nostra esperienza, narrandoci con l’intento malcelato di sottolineare noi stessi e di proporci agli altri come misura edificante di comportamento. In italiano si chiama ‘egolalia’ e vuole indicare la tendenza a parlare continuamente di sé.
Di converso, quante volte pronunciamo il pronome tu? Solo in caso di necessità discorsive.
I nostri cosiddetti dialoghi, subiscono quasi sempre la tentazione di ridursi a monologhi. Ci pare di aver ascoltato sufficientemente gli altri, mentre, in realtà abbiamo solo parlato di noi. Abbiamo celebrato noi stessi. Ci capita anche di non lasciare all’interlocutore il tempo di esprimere compiutamente il proprio pensiero. E siccome egli è afflitto dalla stessa inclinazione all’io, anch’egli prevarica, per cui quello che doveva essere un dialogo, un dibattito, un confronto tra opinioni diverse, un misurarsi sulle diversità, finisce col diventare una lotta a scagliare le parole ‘io, io’ sull’ interlocutore come fossero pietre. Io che scrivo non sono esente da tale difetto, ci cado an’ ch’io, spesso inconsapevolmente, anche se dopo me ne pento e recito un atto di contrizione che ‘a posteriori’ non vale nulla.
Quello che ho tentato di descrivere scaturisce da ciò che in qualsiasi vocabolario italiano viene definito ‘egotismo’ che vuole indicare una “eccessiva stima di sé che induce ad attribuire valore solo alla propria esperienza”.
La prima conclusione del discorso fin qui fatto è che dobbiamo imparare ad ascoltare, prima di imparare a parlare. L’ ascolto è un elemento di delicatezza, di rispetto del tu, di consapevolezza che l’altro, anche quando è in errore, ha sempre qualcosa da dire che mi arricchisce, mi stimola, mi induce a
riflettere. E’ l’ascolto è anche l’anticamera della democrazia, è
un termometro che serve a misurare il malessere della prevaricazione antidemocratica. Non c’è democrazia senza ascolto.
Ci sono diversi tipi di celebrazioni di sé. C’è una celebrazione quasi inconsapevole fatta di abitudine, di una inclinazione quasi spontanea a proporci agli altri come esempio, cedendo alla lusinga di metterci al centro dell’interesse altrui, e c’è una consuetudine a usare il turibolo mandando il fumo dell’incenso verso noi stessi: il narcisismo (Narciso, guardando la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua s’innamorò di se stesso), è la più comune esaltazione dell’io in cui ci imbattiamo. Ma c’è una forma ancora più grave di ripiegamento su di sé che sfocia nell’adorazione, in una sorta di egolatria, cioè di culto che ha per oggetto l’adorazione di se stesso.
Quelli che ho tentato di descrivere in sintesi, in politica trovano un terreno fecondo, contagiante e diffusivo. La politica è naturalmente competizione e quindi tende continuamente all’ accreditamento di sé presso gli altri, soprattutto verso l’altro competitore, cioè l’avversario.
Poi ci sono altri spazi esemplari di scadimento del costume, dove si affaccia prepotente l’ipertrofia dell’ego, il bisogno inderogabile della ribalta e delle luci puntate su di sé. Allora si va ad accarezzare le inclinazioni maschiliste diffuse in certi strati del Paese. “Io non ho mai pagato una donna, non ho mai capito che soddisfazione ci sia se non c’è il piacere della conquista, abbiamo sentito dichiarare in questi giorni da chi ci rappresenta ai vertici del governo, in cui riemerge il clichet del cacciatore e della preda, in cui la preda si offre gratis al cacciatore. Si indulge all’eccesso di sorrisi, di scherzi e barzellette; è la fregola indomabile d’apparire simpatico a ogni costo, lo scialo di galanterie deprimenti con corredo di lauti donativi a inopinate donnette gentili, e altro, tanto altro, in un catalogo gonfio di goliardiche trovate e arcinoto sul proscenio nazionale, e purtroppo anche su quello internazionale. Qui la celebrazione di sé si fa malessere, vizio, irrefrenabile egolatria, oltre che segno di una caduta rovinosa di valori.
Per noi c’è un’altra misura dei rapporti col tu, con gli altri. L’io deve stare nelle retrovie, nei cantucci inesplorati, perché il tu è l’altro, il prossimo, colui che si colloca a un metro dalla mia umanità, anche se vive a migliaia di chilometri da me. La condizione per seguire il Maestro è quella di rinnegare noi stessi e assumere sulle spalle la croce pesante del quotidiano malessere. Rivoluzione copernicana, difficile certo, in cui l’io, cioè il pianeta creduto al centro dell’universo, si sposta dal suo punto per collocarsi nelle periferie, dove sta il tu, l’altro da noi, il sole che pensavamo ridotto a circuirci, e che occupa invece lo stesso spazio che sembrava spettasse a noi, il centro, che è invece quel Io dove l’amore impianta le sue tende e s’invera nell’altro.
Emanuele Giudice